Nel luglio 2013 la Corte di Giustizia Europea ha condannato l’Italia per non aver imposto a tutti i datori di lavoro di prevedere, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, soluzioni ragionevoli applicabili a tutti i disabili, venendo meno al suo obbligo di recepire correttamente e completamente l’articolo 5 della direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
Pochi mesi dopo la sentenza della Corte di giustizia, il legislatore italiano è corso ai ripari, aggiungendo in sede di conversione il comma 3-bis all’articolo 3 del decreto legislativo 9 luglio 2003:
“Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità”.
Ma cosa sono gli accomodamenti ragionevoli e qual è il loro impatto per le aziende e i datori di lavoro?
L’articolo 2 quarto comma della Convenzione dell’ONU, definisce accomodamenti ragionevoli “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”.
Tale disposizione contempla una definizione ampia della nozione e si riferisce all’eliminazione delle barriere di diversa natura che ostacolano la piena ed effettiva partecipazione delle persone disabili alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori.
Pertanto non riguarderebbero solo l’accessibilità fisica dei luoghi di lavoro ma, più in generale, la compatibilità dell’ambiente di lavoro con il funzionamento della persona, compresa l’organizzazione e l’orario di lavoro.
Dunque alla luce delle fonti superprimarie (Convenzione ONU e Direttiva EU, poi completamente recepita con il comma 3bis dell’art. 3, D.Lgs. 216/2003 già richiamato), sul datore di lavoro grava l’obbligo di adottare provvedimenti appropriati per consentire ai disabili o meglio ai lavoratori portatori di handicap di superare il loro specifico impedimento e quindi di accedere ad un lavoro o di conservarlo; tali provvedimenti comprendono non solo interventi di carattere tecnico-materiale, come il riallestimento della postazione di lavoro e la sostituzione delle attrezzature, ma anche interventi di carattere organizzativo, come la redistribuzione delle mansioni, la riduzione o rimodulazione dell’orario di lavoro, o il cambiamento dei turni. Ad esempio, la ricerca di mansioni diverse, equivalenti o inferiori, deve essere considerato uno dei possibili accomodamenti ragionevoli e tale conclusione, già esplicitata dall’art. 42, D.Lgs. 81/2008, deve ritenersi oggi ulteriormente rafforzata alla luce della previsione contenuta nell’art. 2103, comma 5, cod.civ., che prevede la modifica delle mansioni “nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione o al miglioramento delle condizioni di vita”.
L’eccessiva sproporzione è, invece, il solo limite entro cui contenere i possibili adattamenti organizzativi, per il resto da considerare tutti potenzialmente fattibili; sproporzione che andrà valutata, caso per caso, con riferimento alle dimensioni e alle disponibilità finanziarie di un’impresa.
Ed in tema di licenziamenti che impatto hanno gli accomodamenti ragionevoli?
Un lavoratore disabile non può essere licenziato se non dopo che il datore di lavoro, onde evitare il recesso stesso, abbia provveduto a disporre ogni possibile modifica aziendale, da intendersi in senso assai ampio, con il solo limite degli eccessivi oneri economici.
Il rifiuto di adattamento ragionevole o il licenziamento operato in assenza dello stesso debbano qualificarsi rispettivamente come comportamento e licenziamento discriminatorio.
In particolare, la mancata adozione di una soluzione organizzativa senza costo per l’azienda “costituisce violazione del generale principio di parità di trattamento dei lavoratori portatori di handicap posto dalla direttiva 2000/78 e nell’ordinamento interno dal D.Lgs. 216/2003 senza che rilevi in alcun modo l’esistenza o la prova di un intento soggettivo della società di discriminare la ricorrente, il divieto di discriminazione operando obiettivamente” .
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